Fellini e Calvino
Visioni d’Italia è il titolo provvisorio di un film che Federico Fellini non girò mai. Uno dei (tanti) progetti mancati, non tra i più noti. L’idea nasce a colazione da Canova, il caffè di piazza del Popolo: è il 1963 e, pochi giorni prima, Fellini ha ricevuto da uno dei maggiori intellettuali italiani del Novecento una lettera piena di ammirazione per 8½. Chi gli scrive è Italo Calvino, di cui il 19 settembre ricorre l’anniversario della scomparsa e che il prossimo 15 ottobre avrebbe compiuto 100 anni, ai quei tempi già affermato scrittore per aver pubblicato la Trilogia degli antenati e raccolto e riscritto per Einaudi duecento Fiabe italiane. E proprio da questi racconti popolari i due, in quel loro primo incontro, decidono di trarre un film, da cui sarebbe dovuto scaturire il ritratto di un Paese percepito come una sorta di “palazzo del piacere di Kublai Khan”, Visioni d’Italia, per l’appunto, anche se quel titolo arriverà molti anni dopo.
È da tempo che Calvino segue il lavoro di Fellini: in una lettera inviata a Eugenio Scalfari, segnala all’amico il talento di un giovane vignettista, quasi loro coetaneo, firma del “Marc’Aurelio”, il leggendario periodico umoristico degli anni Trenta e Quaranta: è il 1943, sette anni prima dell’esordio di quel giovane dietro la macchina da presa con Luci del varietà. Tra le lettere di Calvino a Scalfari nel 1943 e a Fellini nel 1963, da cui inizia la frequentazione ultra ventennale tra lo scrittore e il regista, ricorrono altri tre incroci, il primo dei quali poco, se non pochissimo, noto. Nel 1959 esce il Cavaliere inesistente, che chiude la Trilogia degli antenati: Fellini intende acquistare i diritti ma Calvino, che accoglie questo proposito con freddezza e una certa preoccupazione, sollecita il proprio agente a proporre a Ingmar Bergman l’adattamento. Alla fine né a Fellini sono ceduti i diritti né Bergman accetta la proposta e nel 1979 è Pino Zac a portare sul grande schermo il romanzo.
Calvino non è neppure – e questo è il secondo incrocio – tra coloro che osannano La dolce vita, in particolare non lo convince l’episodio del suicidio/omicidio dell’intellettuale Steiner, giudicato “privo di qualsiasi verità e sensibilità”, una sequenza che tradisce “l’anti-intellettualismo programmatico e l’ossatura ideologica del film”. Infine, la terza occasione in cui i destini dei due si intrecciano prima dell’inizio della loro amicizia, è nei crediti di Boccaccio ’70, il film collettivo del 1962, dove Fellini dirige Le tentazioni del dottor Antonio, mentre Calvino è lo sceneggiatore di Renzo e Luciana, l’episodio di Mario Monicelli, tratto da un racconto dello stesso Calvino. Poi arriva, come detto, l’apprezzamento per 8½ e soprattutto, nel 1974, viene pubblicata Autobiografia di uno spettatore, la famosa prefazione ai Quattro film di Fellini, in cui Calvino da una parte ricostruisce l’educazione sentimentale e intellettuale a colpi di film americani di una generazione di provinciali, dall’altra ci lascia alcune mirabili intuizioni sul cinema di Fellini: sulla dialettica lontananza/vicinanza, Roma/provincia, sogno/nostalgia; sull’impatto dei fumetti non solo sulla formazione culturale di Fellini ma sul nucleo profondo della sua opera più matura; sulla “zona Masina”, ossia su quella dimensione dell’immaginario felliniano che si richiama al circo e alle sue figure.
Tornando al progetto di trasposizione delle Fiabe italiane, e a quel poco che si sa: scelte le fiabe, alla fine saranno sette, il problema di Calvino e Fellini è come cucirle assieme, come legarle in un racconto unitario. Dovranno passare vent’anni dal loro primo incontro prima di trovare una soluzione: più che un fil rouge narrativo un espediente scenografico, una sorta di gioco dell’oca escogitato dallo stesso autore de Le città invisibili. Fellini in quel periodo – siamo nel 1983 – è sul set de E la nave va, e pensa di coinvolgere la squadra dei tecnici del film per la realizzazione di quell’ambientazione ludica. Purtroppo, da lì a due anni, Calvino scompare. Una delle pochissime tracce che restano di questo progetto sono le sottolineature e alcune note che compaiono nelle pagine dei due volumi di Fiabe italiane ritrovati nella biblioteca privata di Fellini (vedi foto), nello studio di Corso Italia. Oltre alle Fiabe, di Calvino Fellini possedeva altri 5 libri, tra cui Le cosmicomiche e I nostri antenati. All’uscita del già citato E la nave va, il quotidiano “Repubblica” ospita due recensioni del film: la stroncatura di Giorgio Bocca e la difesa a firma proprio di Calvino che del film coglie l’atmosfera da “giudizio universale a rallentatore”, quel sentimento di fine non di un mondo ma del mondo, e il legame con Amarcord: la Gloria N., il piroscafo protagonista del film del 1983, è una diretta discendente del transatlantico Rex, di quella sua fantastica apparizione su un mare nero, fatto di teli e di plastica, un mare povero, come è quello degli esuli, dei profughi, che “si porta dentro – come disse Sergio Zavoli – una dolce malinconia”.